C’era una volta “il viaggio della mia vita”. Bramato per ben 13 anni, mica una semplice cotta passeggera. Per tredici anni ho detto e ripetuto, a me stessa e agli altri, che “un giorno” avrei intrapreso un lungo viaggio in quelle terre misteriose.
TREDICI.
Ditelo lentamente: Treeediiiciii Aaanniii. Sono tanti, no? È sicuramente la storia d’amore più lunga che abbia mai avuto. Un amore sbocciato tra i banchi di scuola. Ti immagini? Proprio io, che non sono mai stata la prima della classe.
Galeotto fu un lavoro di Geografia che consisteva nello scrivere una sorta di “diario di viaggio”, un compito assegnato un giorno in cui ero assente, per giunta. Chissà quanti altri amori sono nati così e quanti altri ne nasceranno in futuro, almeno finché ci sarà Geografia a scuola. E comunque è nato tutto per caso. Figurati, la mia amica Giulia si scusò pure, mi disse “c’erano rimasti da scegliere solo l’India e il Sudafrica, quindi a quel punto ho pensato che l’India fosse meglio, no?“. Come se al tempo sapessimo davvero qualcosa su questi due paesi, ma “a pelle” ero d’accordo con lei.
Quel lavoro di geografia mi ha portato a seguire un corso di meditazione tibetana, a frequentare un corso di Raqs Sharqi, che non c’entra niente ma che era la cosa più vicina alla bharatanatyam che la mia città potesse offrire, a leggere decine di libri sulle divinità Hindu e sulla reincarnazione, a convincermi che in una vita passata avevo davvero vissuto in quel paese pieno di colori e suoni, a vedere e rivedere Monsoon Wedding e altri film più o meno legati all’India, a comprare cd di musica indiana ed ascoltarla a tutto volume (mio padre avrà pensato “beh, se queste stramberie la fanno stare lontana dall’alcool e dalla droga…”).
Quel banale compito mi ha fatto conoscere persone da tutta Italia che condividevano con me una spiritualità fuori dai canoni convenzionali, a frequentare regolarmente i ristoranti indiani alla ricerca dei sapori che un giorno avrebbero davvero segnato la mia vita, a partecipare come volontaria al Festival di cinema indiano di Firenze, il River to River, il primo festival nel mondo interamente dedicato alla cinematografia indiana. Quel semplice “diario di viaggio” ha ispirato il nome che desider* per il mio futuro figlio. Siddharta.
La maggior parte di queste cose le ho fatte prima di compiere 19 anni, prima del 2004. All’epoca ero ancora una ragazzina che non sapeva che “viaggiare” sarebbe stata LA priorità.
Sì, avevo questa “fissazione” dell’India e di tutte le cose che potevano vagamente ruotarle attorno, ma non immaginavo che viaggiare sarebbe diventata un’attività necessaria alla sopravvivenza della mia anima. In ogni caso quel nuovo amore non ha mai offuscato lei, l’India. E nel 2011 il sogno della mia vita è diventato realtà.
Il destino è un burlone, mica prende sul serio le nostre vicende. L’aveva lanciata così per gioco, la sfida, non credeva che io l’avrei presa tanto sul serio questa cosa dell’India. Eppure quello è stato l’unico compito che è rimasto impresso nella mia mente e che ha davvero plasmato, influenzato e indirizzato buona parte della mia vita e le migliaia di scelte e decisioni che mi hanno portato fino alle strade cocenti, polverose, caotiche e surreali di New Delhi. Non mi sento in grado di poter dire di aver fatto un lungo viaggio in India, perché da adolescente fantasticavo un viaggio che sarebbe durato almeno sei mesi. Il tempo, minimo, per sentirmi autorizzata a parlare dell’India con autorevolezza e con spessore, per andare un po’ oltre il soggettivo.
E invece in India ci sono stata solo due mesi. Due mesi in una nazione che è grande undici volte l’Italia. 11, non so se mi spiego. È come se uno si sentisse in grado di parlare dell’Italia con grande cognizione di causa dopo un’esperienza di quattro giorni. Un po’ presuntuoso, no?
60 giorni sono bastati però a farmi capire che né io né voi sappiamo un tubo sull’India. 6.356 chilometri di strada battuta palmo a palmo, mi hanno lasciato una sola certezza. Parlare di India quando in realtà ci si riferisce solo al Rajasthan è una leziosaggine, un superficialismo occidentale.
60 notti di cieli senza stelle mi hanno fatto aprire gli occhi. Ridurre l’India, disseminata di discariche urbane a cielo aperto dove si consumano violazioni dei diritti dell’infanzia maggiori che in qualunque altro Paese, dove esiste la servitù per debito, dove persiste il traffico di umani e il matrimonio forzato (gli occhi persi e vuoti di quei ragazzi sul “patibolo nuziale” ancora mi perseguitano), dove gli stupri di massa e l’infanticidio femminile sono all’ordine del giorno, a una fiaba orientale è sbagliato e ingiusto. L’India si ama o si odia (soprattutto allo stesso tempo) ma non è la novella da mille e una notte che vi immaginate, mai, nemmeno quando vi viene raccontato così, nemmeno quando siete voi stessi a percepirla così. L’India spirituale, profonda, misteriosa e pregna di significato è un miraggio nel deserto. Quello che vedete è quello che vi piace vedere.
1.440 ore di vita indiana mi hanno aperto gli occhi sulla bellezza autentica e sincera dell’India del Sud, che viene fin troppo trascurata dai viaggiatori e forse, al momento, è l’unica cosa più vicina alla “vera India” che possa esistere. Ma chissà, magari anche questo è un miraggio.
Due mesi sono bastati per incrinare una storia d’amore durata più di un decennio.
Due mesi in India hanno suggellato il mio legame e-s-s-e-n-z-i-a-l-e con il viaggio.
Respiro viaggiando
Cosa è quella forza misteriosa che ci spinge a cercare e ricercare paesaggi mai visti, sorrisi mai incontrati e ricambiati, colori inaspettati e illuminati da una luce che appare diversa da quella di casa propria? Forse non esiste una vera risposta, perché è un insieme di tanti piccoli tasselli cangianti. Questa forza imperscrutabile si manifesta in molte forme. Puoi immaginare la superficie della Luna o altri mondi lontani grazie ad esploratori innati, che non riuscivano ad accontentarsi di quello che avevano intorno o delle cose che gli venivano raccontate.
Cosa c’è oltre quella finestra, cosa c’è oltre le nuvole, cosa c’è oltre il cielo? Queste domande disegnano il ritmo delle giornate e spargono diamanti nella notte degli esploratori.
Non so davvero spiegare questa urgenza. Sono convinta però che non sia voglia di scappare, ma piuttosto voglia di rimanere. Rimanere centrati, svegli e connessi, ma connessi per davvero, connessi con le viscere della terra, le vette delle montagne e i ciottoli nei fiumi, con i nostri antenati e con le future generazioni, con le persone che amiamo e con noi stessi.
Più sto ferma, più mi allontano da me stessa e dalle persone a cui voglio bene.
Come una bicicletta che per rimanere in piedi deve stare in movimento, deve esplorare, deve imboccare quella strada misteriosa che a un certo punto curva, e chissà dove va.
Ti piace viaggiare? Sì, giusto? Chiunque risponderebbe “sì” a questa domanda, perché il 99% degli esseri umani la traducono in “Ti piace andare in vacanza?”. Ma sentire il bisogno profondo di viaggiare mette in secondo piano qualsiasi altra necessità vera o presunta, si ha la sensazione di poter rimandare quasi tutto nella propria vita, tranne le partenze.
Lo so, la voglia di afferrare il sole viene fin troppo spesso censurata da un brutale mix di senso del dovere, di paura del vuoto e pigrizia. Ed è allora che appare la resilienza, una parola faticosa, dura, grigia. La capacità di gestire psicologicamente, in maniera positiva, le difficoltà e gli ostacoli che si pongono tra te e quello che vuoi non è proprio una capacità innata, va esercitata per tutta la vita.
Due mesi in India hanno forgiato, ispirato e guidato il resto della mia vita e le centinaia di scelte e decisioni che costellano il percorso che mi ha portato fin qui, sotto questo gazebo arroventato dalla calura estiva, mentre lancio qualche occhiata fiera alle piante che sopravvivono al mio pollice (più tendente al nero petrolio che al verde foresta) e provo a mettere in fila le parole che fluttuano attorno alla mia testa.
Due mesi in India mi hanno reso ancora più curiosa, avventurosa e desiderosa di ridurre la distanza tra quello che vedo, o non vedo, e quello che c’è più in là, nel bene e nel male.
Due mesi in India mi hanno preparato ad una fase nuova della mia vita, quella in cui a farmi sentire le farfalle nello stomaco, a farmi arrossire le guance, a farmi correre i brividi lungo la schiena è l’Africa, la culla dell’umanità.
Quelle molliche di naan mi hanno condotto al prossimo piccolo grande viaggio, quello in Namibia e Botswana tra le dune più antiche del nostro pianeta.
E atterrerò in Sudafrica, quel paese che io e la mia amica abbiamo snobbato. Chissà che non sia il cerchio che si chiude.
Questa è la nostra ipotesi di itinerario, avremo a disposizione solo 19 giorni, una sciocchezza, lo so. Però se siete stati in uno di questi due paesi fateci sapere cosa ne pensate: http://bit.ly/TappeAfricaAustrale Per oggi ho vaneggiato abbastanza, se avete voglia di vaneggiare assieme a me, raccontatemi le vostre disillusioni e i vostri amori da viaggiatori qui sotto. Buon cammino.
6 Comments
Buongiorno :)
Stamattina mi è passato per la mente di leggere qualche blog di viaggi .
Non sono una lettrice di blog o un’appassionata di biografie .
Mi piace viaggiare e oggi ho notato la lista dei posti da visitare che giorno dopo giorno scrivo e che diventa sempre più lunga .. Amo la natura e tutte le sue manifestazioni.
Mi piacerebbe ricevere qualche consiglio da te per quanto riguarda i blog, sarebbe una buona idea per approfondire le mie conoscenze per questi luoghi e anche per conoscere me stessa . Ps sono stata anche io in India per un mese ma non sono mai riuscita a descriverla .. Un paese così diverso dal nostro .
Aspetto un tuo messaggio :)
Grazie mille
Ciao Roberta,
capisco bene la tua sensazione, spesso anche io vengo sopraffatta da tutti i luoghi che vorrei visitare e sembra che una vita non sia abbastanza! Ognuno di noi ha predisposizioni e metodi diversi per raccontare i propri viaggio, nemmeno io riesco sempre a mettere per iscritto i miei viaggi. Lavoro in ambito web quindi per me aprire il blog è stato anche un modo per sperimentare uno strumento che serviva alla mia carriera, ma poi è diventata una passione condivisa e mantenuta viva grazie alla collaborazione di amici viaggiatori. Aprire e mantenere un blog vivo è un secondo lavoro, richiede molto tempo e dedizione. Fortunatamente si trovano molti articoli che parlano di come aprire un blog e ci sono anche tanti gruppi dove blogger di viaggio, convinti di proseguire questo percorso, si aiutano a vicenda! La cosa più importante comunque è viaggiare e lasciare aperte le porte delle propria mente e del proprio cuore.
Ciao Kinzica, l’anno scorso sono stata in Namibia on the road per circa 18 giorni. Ititnerario simile al tuo partendo e tornando però a Windhoek! Sul blog trovi un sacco di post ma se hai qualche domanda in particolare fai pure! La namibia ci è piaciuta un sacco, soprattutto per la sua varietà di panorami, non abbiamo avuto nessuna difficoltà pure avendo una VW Polo! Buon viaggio
Ho letto due o tre post l’altro giorno! Mi pare di aver capito che comunque un 4×4 è meglio e che bucare la ruota è molto, molto probabile. Spero di riuscire a fare l’itinerario che vogliamo fare (tra Botswana e Namibia) in soli 19 giorni!
Bellissime parole, mi hai fatto venire i brividi.
Stefania
Stefania grazie mille :D non è facile riordinare pensieri sparsi e che albergano la propria mente da tempo, poi però il risultato spesso è più efficace di quanto si possa credere. Sono quindi felice di aver condiviso con te un po’ di brividi.